PLAFOND IVA: si devono verificare le dichiarazioni di intento

Si devono verificare le dichiarazioni di intento, altrimenti si può incorrere nel sequestro preventivo.

La Cassazione, con sentenza n. 1358/2022, ha stabilito che è legittimo il provvedimento di sequestro preventivo, in funzione della successiva confisca, del profitto del reato di dichiarazione fraudolenta, in capo al rappresentante legale di una società che utilizzi dichiarazioni di intento presumibilmente false, in quanto emesse da una società da poco costituita, e che quindi non poteva avere conseguito lo status di esportatore abituale e neppure disporre di un plafond per operare acquisti in sospensione d’imposta.

Secondo la Cassazione, la società avrebbe dovuto effettuare almeno una verifica sul presunto esportatore abituale, poichè soggetto con il quale non vi erano stati rapporti in precedenza; ad es. una visura camerale, avrebbe già consentito di accertare che la società emittente della dichiarazione di intento nel caso specifico neppure era iscritta alla Camera di Commercio. Di contro, limitarsi a riscontrare l’adempimento dell’obbligo di trasmissione telematica della dichiarazione di intento all’Agenzia delle Entrate non è sufficiente.

LE UTILITY PER LA GESTIONE DEL PLAFOND IVA

Sezione PLAFOND del sito

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INTRA UE: IVA su acquisti intra UE detraibile solo se assolta a monte

Fonte: Fisco Oggi
Data: 30/05/2013
Autore: a cura di Giurisprudenza delle imposte edita da ASSONIME
Ai fini del riconoscimento del diritto allo scomputo dell’imposta, è necessario che gli obblighi sostanziali connessi al tributo siano stati puntualmente osservati
I commi 1 e 8 dell’articolo 40 DL 331/1993, nel testo vigente prima delle modifiche ex art. 2, co. 1, lett. b), D.Lgs 18/2010, prevedevano che gli acquisti di beni mobili intra UE venissero assoggettati a Iva in Italia quando detti beni venivano spediti o trasportati dal territorio di altro Stato membro nel territorio dello Stato e che, parimenti, fossero assoggettate a imposta nel territorio dello Stato le operazioni di intermediazione in dette vendite, rese a favore di soggetti Iva residenti.
Con riferimento alle cennate operazioni, l’acquirente del bene e/o il committente della prestazione di intermediazione doveva: numerare le fatture ricevute, integrarle indicando in euro (in precedenza in lire) gli elementi dell’imponibile espresso in valuta estera e l’ammontare dell’imposta, nonché annotarle nel registro delle fatture emesse (registro delle vendite) e in quello delle fatture ricevute (registro degli acquisti), così da dare vita a un credito Iva esattamente corrispondente all’imposta dovuta (articoli 17, comma 3, del DPR 633/1972, e 46 DL 331/1993, entrambi nel testo vigente ratione temporis). Nella fattispecie sottoposta all’attenzione della Corte suprema (sentenza n. 6925 del 20 marzo 2013), il contribuente aveva omesso l’annotazione delle fatture in entrambi i registri, procedendo, tuttavia all’esercizio della detrazione dell’Iva assolta sugli acquisti, mediante indicazione del relativo credito nella dichiarazione Iva.Premesso che dalla lettura della pronuncia in epigrafe non risulta chiaro in che modo il contribuente abbia proceduto a esporre in dichiarazione un credito Iva relativo a un’operazione passiva non contabilizzata (posta la mancata annotazione della medesima nel registro degli acquisti), comunque – in tale stato di cose – la Corte di cassazione ha riconosciuto la legittimità del recupero dell’imposta scomputata in detrazione, operato dall’ufficio, rilevando nella fattispecie l’assenza di qualsivoglia violazione del principio di neutralità dell’Iva.Come correttamente evidenziato dal Supremo collegio, infatti, il principio di neutralità dell’Iva impone che l’inosservanza da parte di un soggetto passivo delle formalità imposte da uno Stato membro non può privare il soggetto medesimo del suo diritto alla detrazione Iva, esercitato mediante annotazione a credito dell’imposta in dichiarazione; ferme restando le eventuali sanzioni previste per l’inosservanza degli obblighi formali.

Tuttavia, ai fini del riconoscimento del diritto alla detrazione, è pur sempre necessario che gli obblighi sostanziali connessi all’imposta in questione siano stati puntualmente osservati. Il che si traduce nella necessità che, a monte della detrazione, vi sia comunque stato il versamento dell’imposta dovuta (Corte di giustizia 8 maggio 2008, cause riunite C-95/07 e C-96/07; Cassazione 25 novembre 2011, n. 24912; Cassazione, 28 luglio 2010, n. 17588; Cassazione 9 ottobre 2009, n. 21457; Cassazione 20 agosto 2004, n. 16477 e 5 maggio 2010, n. 10819; in prassi: RM 56/E/2009, ove è stato evidenziato che “è fatto salvo il diritto alle detrazioni si sensi dell’art.19 d.P.R. 26 ottobre 1972 n.633 quando l’imposta sia stata assolta, ancorché irregolarmente“).

Come si è detto, tuttavia, nella fattispecie sub iudice, il soggetto passivo non aveva provveduto ad annotare le operazioni in questione né nel registro degli acquisti né in quello delle vendite, comunque indicando nella dichiarazione annuale il credito d’imposta relativo all’Iva da scomputare in detrazione con riferimento alle operazioni medesime.

Secondo la Corte, quindi, il soggetto passivo, oltre a non aver rispettato gli obblighi formali imposti dalla normativa, non aveva altresì assolto gli obblighi sostanziali di versamento dell’imposta, cui avrebbe dovuto provvedere mediante l’annotazione delle operazioni nel registro delle vendite. In tale stato di cose, ad avviso del Supremo collegio, il diritto alla detrazione, esercitato mediante esposizione del relativo credito in dichiarazione, non può essere riconosciuto.

IVA: territorialità servizi relativi a immobili

Fonte: Cassazione sentenza 14068/2012

Il luogo di effettuazione delle prestazioni di servizi relativi ad immobili è quello dove si trova l’immobile; pertanto, l’operazione è soggetta ad IVA in base alle disposizioni vigenti nello specifico Paese.

La Cassazione pronuncia la sentenza n. 14068/2012 sui servizi relativi a beni immobili individuati, in base alla normativa vigente ai fatti di causa, ex art.9, n. 2, lettera a), VI direttiva del Consiglio ed ex art. 4, co.4, DPR 633/1972; secondo tale normativa, il luogo di effettuazione delle prestazioni di servizi relative a un bene immobile, è quello dove è situato il bene immobile medesimo; conseguentemente, l’operazione dovrà essere assoggetta ad IVA in base alle disposizioni vigenti nel Paese in cui si trova l’immobile.

In base a precedente sentenza (n. 12834/2012) sempre la Cassazione  ha ricordato che si considerano effettuate nel territorio dello Stato, e quindi sono imponibili in Italia, le prestazioni di servizi:

  • rese da soggetti che hanno il domicilio nel territorio italiano o da soggetti ivi residenti che non abbiano stabilito il domicilio all’estero … (collegamento soggettivo attivo);
  • relative a beni immobili situati in Italia … (collegamento oggettivo);
  • rese a soggetti domiciliati o residenti in Italia, salvo che non siano utilizzate fuori dell’UE … (collegamento soggetto passivo) .

Secondo la Corte, la fattispecie in sentenza rientra nel criterio oggettivo: si tratta infatti del caso di una ditta individuale che forniva supporto logistico in Sardegna per la clientela tedesca di due società estere per l’approntamento e la consegna degli alloggi dati in locazione turistica ai clienti tedeschi (pulizia, manutenzione, riparazione, ecc.).

Come noto, la direttiva n. 2008/8/CE ha modificato principi di territorialità delle operazioni IVA, tuttavia non ha cambiato la territorialità delle prestazioni relative a beni immobili per le quali continua a operare un criterio oggettivo di collegamento al territorio, in deroga ai criteri generali di territorialità ex artt. 44 e 45 Direttiva 2006/112/CE e articoli 7-bis e 7-ter DPR 633/1972.

In particolare:

  • ex art.47 Direttiva 2006/112/CE, “il luogo delle prestazioni di servizi relativi a un bene immobile, incluse le prestazioni di periti, di agenti immobiliari, la fornitura di alloggio nel settore alberghiero o in settori con funzione analoga, quali i campi di vacanza o i terreni attrezzati per il campeggio, la concessione di diritti di utilizzazione di un bene immobile e le prestazioni tendenti a preparare o a coordinare l’esecuzione di lavori edili come, ad esempio, le prestazioni fornite dagli architetti e dagli uffici di sorveglianza, è il luogo in cui è situato il bene”.
  • ex art. 7-quater co.1, lett.a) DPR 633/1972,  “si considerano effettuate nel territorio dello Stato a: le prestazioni di servizi relativi a beni immobili, comprese le perizie, le prestazioni di agenzia, la fornitura di alloggio nel settore alberghiero o in settori con funzioni analoghe, ivi inclusa quella di alloggi in campi di vacanza o in terreni attrezzati per il campeggio, la concessione di diritti di utilizzazione di beni immobili e le prestazioni inerenti alla preparazione e al coordinamento dell’esecuzione dei lavori immobiliari, quando l’immobile è situato nel territorio dello Stato”.

IVA: nella frode carosello l’onere della prova ricade sul contribuente

Fonte: Fisco Oggi – sentenza Cassazione n.15741/2012

Data: 02/10/2012

Autore: S. Ungaro

Tocca al contribuente beneficiario della frode dimostrare di non aver detratto l’Iva abusivamente e di non essere stato coinvolto consapevolmente nell’operazione carosello.

In caso di interposizione fittizia, non spetta all’Agenzia delle Entrate dare prova dell’accordo simulatorio tra l’effettivo fornitore della merce, la cartiera che ha emesso le fatture e l’effettivo acquirente. L’onere probatorio grava, invece, sul contribuente acquirente, che è tenuto a dimostrare anche la sua estraneità al disegno fraudolento.
E’ quanto emerge dalla sentenza della Corte di cassazione n. 15741 del 19 settembre.

Il fatto
L’Agenzia delle Entrate aveva notificato a una società per azioni un avviso di accertamento, rettificando la dichiarazione Iva del 2000.
La contestazione riguardava la detrazione dell’imposta, ritenuta collegata a operazioni soggettivamente inesistenti e fatturate al contribuente da “cartiere” costituite al solo scopo di frodare l’Iva, interponendosi fittiziamente tra i reali fornitori esteri e le società acquirenti nazionali.
I giudici tributari, in primo e secondo grado, avevano accolto il ricorso della società perché, a loro avviso, l’ufficio, che aveva fondato la propria pretesa tributaria sulla prospettazione di un’interposizione fittizia, non era riuscito a dare prova dell’accordo simulatorio tra reale cedente, reale cessionario e soggetto fittiziamente interposto.
In particolare, secondo i giudici, l’Amministrazione finanziaria non era stata in grado di provare la frode né poteva ritenersi sufficiente a dimostrare il coinvolgimento del ricorrente in un disegno fraudolento il solo intrattenimento di rapporti con un fornitore abituale evasore.

La pronuncia della Corte di cassazione
La Corte suprema, accogliendo il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, ha invece annullato, con la sentenza n. 15741 del 19 settembre, la pronuncia di appello.
Ai giudici di merito è stato contestato un errore di fondo ovvero l’aver ignorato l’elaborazione giurisprudenziale tributaria in materia di elusione, la quale è basata non sulla simulazione ma sull’abuso di strumenti giuridici formali in assenza della concreta sostanza economica a essi corrispondente al fine di utilizzarne gli effetti per eludere l’imposizione.
Nel caso della frode carosello, come ha precisato la Cassazione, il passaggio intermedio non corrisponde a un’effettiva intermediazione commerciale, ma alla finalità di far apparire acquirente e quindi cessionario un evasore per potersi successivamente avvantaggiare del non pagamento dell’Iva da parte sua.

La distinzione fra fatture soggettivamente inesistenti e frodi carosello
Al riguardo, la Suprema corte ha fornito un’interessante distinzione tra fatture per operazioni soggettivamente inesistenti e frodi carosello, soffermandosi sulla ripartizione dell’onere probatorio tra Fisco e contribuente.
Nella prima ipotesi, la fornitura è stata acquisita effettivamente dal contribuente, ma è stata fornita da un soggetto diverso dal fatturante.
L’Iva che il cessionario assume di aver pagato al cedente per la transazione fittizia (e cioè per la cessione non effettuata da quel preteso cedente) non è detraibile, perchè pagata a un soggetto non legittimato alla rivalsa né obbligato al pagamento dell’imposta.
In tal caso, l’onere della prova grava sul contribuente acquirente che, per detrarre l’Iva, deve dimostrare di non essere stato a conoscenza del fatto che il fornitore effettivo non era il fatturante ma un altro (Cassazione, sentenza 8132 dell’11 aprile 2011).
Al Fisco, invece, per escludere la detraibilità dell’imposta, occorre provare, anche tramite presunzioni, che la cessione non è stata effettivamente operata dal fatturante.

Nella frode carosello, invece, il fatturante, almeno formalmente, è il fornitore effettivo, ma l’operazione si iscrive in un disegno fraudolento volto a evadere l’imposta.
L’Iva che figura pagata al cedente in via di rivalsa non è detraibile dato che a essa, con la consapevolezza o la partecipazione del cessionario, non corrisponde né un versamento all’erario né un’attività economica effettiva, in quanto il trasferimento all’intermediario formale ha il solo scopo abusivo di avvantaggiarsi della detrazione.
In questo secondo caso, deve essere il Fisco, anche mediante presunzioni, a provare gli elementi di fatto che concretizzano la frode e la partecipazione consapevole del contribuente al reato.

Conclusioni
Tuttavia, la Corte di cassazione, evidenziando che spesso le due pratiche fraudolente sono commesse contemporaneamente, ha ritenuto che, anche nell’ipotesi in cui dovrebbe essere il Fisco a dare prova del coinvolgimento dell’acquirente, grava in realtà su quest’ultimo l’onere di dimostrare “la verità dell’inverosimile”, ovvero l’interposizione fittizia fra l’effettivo fornitore della merce e le cartiere nonché la sua estraneità al disegno fraudolento.
Infatti, come ribadito dai giudici, nelle frodi carosello il meccanismo dell’operazione e gli scopi che la stessa si propone fanno presumere la piena conoscenza della frode e la consapevole partecipazione all’accordo simulatorio del beneficiario finale.
Ciò comporta, ai sensi dell’articolo 17, della direttiva 77/388/Cee/1977, che l’Iva assolta dal medesimo beneficiario nelle operazioni commerciali con la società filtro non è detraibile (articolo 19 del Dpr 633/1972), anche se tali cessioni sono state effettivamente compiute e le relative fatture, al pari dell’intera documentazione contabile, sembrano perfettamente regolari (Cassazione, sentenza 867/2010).

E’ imperativo, al riguardo, il richiamo all’articolo 17 della direttiva Cee 388/77 del 17 maggio 1977, ove si afferma il principio d’indetraibilità dell’Iva assolta in corrispondenza di comportamenti abusivi, volti cioè a conseguire il solo risultato del beneficio fiscale, senza una reale e autonoma ragione economica giustificatrice della catena di cessioni successive.
Peraltro, sia la giurisprudenza comunitaria che nazionale hanno più volte ribadito il principio generale secondo cui il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo di strumenti giuridici privi di ragioni economicamente apprezzabili e diretti unicamente a conseguire tali indebiti vantaggi (Cge C-419/02/2006; Cassazione, sentenze 10352/2006 e 30057/2008).

Quindi, non avendo la società acquirente adempiuto al proprio onere probatorio, dimostrando, in presenza di fatture soggettivamente inesistenti, di non aver partecipato all’accordo simulatorio,la Corte di cassazione ha accolto il ricorso dell’Amministrazione finanziaria e ha negato al contribuente la detrazione dell’Iva relativa agli acquisti allo stesso fatturati dalle società cartiere.