Sintesi da: Eutekne.info – 04/07/2012
Secondo la Cassazione non è perentorio il termine, ex art. 1, co.2, DM 20 maggio 1982, per presentare le istanze di rimborso IVA ex art. 38-ter DPR 633/1972 (sentenza n. 8690/2010).
Secondo la Corte di Giustizia UE (causa C-294/11), sollecitata da un rinvio pregiudiziale della Cassazione, il termine di sei mesi ex art. 7, par. 1, co.1, ultima frase, VIII Direttiva CEE, per la presentazione di un’istanza di rimborso dell’IVA, è invece un termine di decadenza.
La Corte di Giustizia UE specifica che:
- la domanda pregiudiziale concerne l’interpretazione della normativa UE,
- mentre l’interpretazione delle disposizioni domestiche rimane di competenza del giudice nazionale, il quale deve valutare in che termini la pronuncia pregiudiziale possa avere effetti sull’emanazione della propria sentenza.
In analoga occasione (sent. n. 8690/2010), la Cassazione ha invece respinto la richiesta di rinvio pregiudiziale sollevata dall’Amministrazione finanziaria, posto che, nel caso esaminato, oggetto di interpretazione non è la norma UE ma la norma nazionale che ha recepito l’art. 7 dell’VIII Direttiva.
In tale contesto, dunque, il giudice nazionale, alla luce della recente pronuncia della Corte di Giustizia, dovrebbe verificare, in primo luogo, la possibilità di interpretare la norma interna in modo conforme all’interpretazione resa dai giudici comunitari e quindi far sempre prevalere quella conforme al diritto comunitario sulle altre difformi.
Ove, invece, l’unica interpretazione plausibile della normativa nazionale in esame fosse quella già indicata dalla Cassazione (ad esempio, termine ordinatorio), occorrerebbe verificare se esista un’errata trasposizione della normativa comunitaria, poichè in tal caso la disposizione europea non potrebbe essere invocata dallo Stato inadempiente per ottenere il riconoscimento di un termine perentorio (contenuto nella norma comunitaria) non contemplato dall’ordinamento nazionale. In altri termini, solo i singoli possono far valere l’applicazione diretta delle Direttive comunitarie nei confronti dello Stato (Corte di Giustizia, cause riunite C-621/10 e C-129/11).
Ciò premesso, occorre osservare che l’art. 7 dell’VIII Direttiva è rimasto in vigore fino al 31 dicembre 2009, per essere successivamente sostituito dalla Direttiva 2008/9/CE.
Fino a tutto il 2009, però, la citata disposizione comunitaria non conteneva un’indicazione precisa sulla natura (ordinatoria o perentoria) del termine in esame, limitandosi a stabilire, similmente alla corrispondente disposizione domestica, che la domanda di rimborso deve essere presentata “entro i sei mesi successivi allo scadere dell’anno civile nel corso del quale l’imposta è divenuta esigibile”.
Dunque, rispetto alla disciplina previgente, può affermarsi che il Legislatore italiano ha erroneamente recepito la normativa UE?
La risposta è senz’altro negativa, ragion per cui dovrebbero valere le conclusioni della Cassazione, in base alle quali il termine per la proposizione dell’istanza di rimborso, ex DM 20 maggio 1982, art. 1, co. 2 non è stabilito a pena di decadenza, non avendogli il legislatore italiano attribuito espressamente carattere perentorio. All’Amministrazione finanziaria resta, infatti, preclusa la possibilità di invocare, “a posteriori”, un termine al quale né la norma interna, né quella comunitaria attribuiscono natura decadenziale.
La stessa soluzione si applica alla disciplina in vigore dal 1° gennaio 2010. La norma comunitaria, così come novellata dalla Direttiva 2008/9/CE, stabilisce espressamente che il termine è decadenziale, mentre le disposizioni interne di attuazione, non contenendo la locuzione “al più tardi”, riferita al termine del 30 settembre dell’anno successivo, indicano che il termine è ordinatorio.
Posto che l’errata trasposizione della normativa europea non può essere invocata dallo Stato inadempiente, sarebbe auspicabile una modifica della legislazione nazionale. Se è vero, infatti, che il contribuente non ha motivo di invocare la Direttiva, in quanto più restrittiva sul punto, è altrettanto vero che lo Stato italiano e, quindi, l’Amministrazione finanziaria non può pretendere l’applicazione diretta della disposizione erroneamente trasposta nell’ordinamento interno (cfr. Corte di Giustizia, causa C-227/09).