Fonte: Fisco Oggi
Data: 7/12/2012
Autore: S. Ungaro
Inammissibile il ricorso contro il diniego dell’ufficio e nessuna rilevanza al fatto che l’operazione commerciale non sia stata effettuata tramite il rappresentante fiscale.
Salvo prova contraria, l’attribuzione a un soggetto straniero della partita Iva fa presumere l’esistenza in Italia di una sua stabile organizzazione. E’ questo il principio ribadito dalla Corte di cassazione con la sentenza 21380 del 30 novembre.
Il fatto
L’Agenzia delle Entrate aveva notificato a una società non residente, in seguito alla sua richiesta di rimborso dell’Iva, un provvedimento di diniego. Ciò, in quanto il possesso di codice fiscale e di partita Iva consentiva di presumere l’esistenza di una stabile organizzazione in Italia, con il conseguente venir meno dei requisiti indicati nell’articolo 38-ter del Dpr 633/1972 per l’esecuzione dei rimborsi ai soggetti non residenti.
Al riguardo, è opportuno ricordare che l’articolo 38-ter, nella formulazione vigente all’epoca dei fatti, prevedeva il diritto dei soggetti domiciliati e residenti negli Stati membri della Comunità europea al rimborso dell’Iva nel caso in cui fossero privi di stabile organizzazione in Italia e di rappresentante nominato ai sensi dell’articolo 17, comma 2, del Dpr 633/1972.
Tuttavia, non è stata dello stesso avviso la Commissione tributaria provinciale che, con sentenza confermata dai giudici d’appello, ha accolto il ricorso del contribuente e ritenuto che la nomina di un rappresentante fiscale in Italia e la conseguente attribuzione di partita Iva non dimostrassero “di per sé l’esistenza di una stabile organizzazione, che è un fatto che può essere agevolmente dimostrato e non può essere presunto”.
Il ricorso per cassazione
Avverso la sentenza d’appello l’Agenzia delle Entrate ricorreva per cassazione, lamentando la violazione e la falsa applicazione dell’articolo 38-ter del Dpr 633/1972.
Per l’ufficio, infatti, nel sistema dei rimborsi dell’Iva, la circostanza che il soggetto comunitario non residente avesse nominato un rappresentante fiscale (articolo 17 del Dpr 633/1972) comportava l’impossibilità di richiedere rimborsi infrannuali attraverso il sistema disciplinato dall’articolo 38-ter, primo comma, a prescindere dalla circostanza, del tutto irrilevante, che l’operazione fosse stata o meno effettuata per il tramite del suddetto rappresentante legale.
La pronuncia
La Corte di cassazione, con la sentenza 21380 del 30 novembre, ha ritenuto manifestamente fondato il ricorso presentato dall’Agenzia delle Entrate, dal momento che, come già affermato in precedenza dagli stessi giudici di legittimità (Cassazione, sentenze 17373/2002, 10925/2002, 7689/2002, 3570/2003 e 6799/2004), dall’attribuzione della partita Iva a un soggetto che ne abbia fatta richiesta deriva, per ragioni di ordine logico-giuridico, la presunzione dell’esistenza di una stabile organizzazione.
Tale presunzione, tuttavia, non è di ordine assoluto, per cui non è precluso a colui che agisca per il rimborso a norma dell’articolo 38-ter del Dpr 633/1972 (nella versione vigente all’epoca dei fatti) dimostrare la mancanza in concreto di quegli elementi di ordine personale e materiale che contrassegnano la nozione di stabile organizzazione.
Ciò nonostante, ha concluso la Corte suprema, non appare di alcuna rilevanza la circostanza valorizzata dai giudici di merito per sostenere l’ammissibilità del ricorso alla procedura di rimborso nel caso di specie, ovvero che l’operazione commerciale da cui deriva il credito d’imposta sia stata effettuata senza avvalersi del nominato rappresentante fiscale.
Per i suddetti motivi, la Cassazione ha ribaltato il verdetto dei giudici di merito e cassato la sentenza d’appello, con rinvio della causa ad altra sezione della Commissione tributaria regionale.
Il precedente
Non molti anni fa, la Suprema corte ha affrontato l’analogo caso di un contribuente non residente (si trattava di una famosa società operante nel settore del tabacco) al quale l’Amministrazione finanziaria aveva negato il rimborso ex articolo 38-ter dell’Iva pagata per rivalsa nell’anno 1995 in relazione a operazioni imponibili fatturate da terzi in Italia. Anche in tal caso, l’ufficio aveva emesso il provvedimento di diniego, poi impugnato dinanzi ai giudici tributari, sulla base della ritenuta esistenza in Italia di una stabile organizzazione della società stessa.
Il ricorso della società era stato accolto in primo grado in quanto, per la Ctp, l’ufficio non aveva offerto elementi di fatto e di diritto atti a dimostrare che la ricorrente risultava disporre di una stabile organizzazione in Italia. Cosa che, invece, era evidente per i giudici di appello, per effetto dell’attribuzione della partita Iva.
La questione è stata risolta definitivamente dalla Corte di cassazione con la sentenza 7703 del 13 aprile 2005 (richiamata anche dalla sentenza 21380/2012), che ha ribadito il principio costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità: dall’attribuzione della partita Iva a un soggetto straniero deriva la presunzione dell’esistenza in Italia di una sua stabile organizzazione, ferma restando la possibilità per l’interessato di dimostrare l’insussistenza degli elementi che la caratterizzano. Nessun ulteriore onere probatorio incombe, invece, sull’Amministrazione finanziaria.